Colleghi e avversari padovani di Galileo

Oreste Trabucco

Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa

Napoli. Italia.

 

 

Il rapporto di Galileo con lo Studio padovano costituisce un tradizionale oggetto d’indagine della maggiore storiografia sullo scienziato pisano, come sta ad attestare autorevolmente la celebre monografia di Antonio Favaro sul tema.

Questione dibattuta negli anni più recenti quella dell’influsso del periodo patavino sulla speculazione galileiana a partire dai discussi, eppure fertili, contributi di Randall, Schmitt, Wallace, oggi inscrivibile entro una cornice interpretativa resa più solida da quel dibattito.

Da parte nostra si intende portare l’attenzione su due eminenti figure di lettori dello Studio di Padova succedutisi sulla più illustre cattedra di filosofia: Cesare Cremonini e Fortunio Liceti. Entrambi dialogano, non senza asprezze, ma sempre entro un contesto di civil conversazione con Galileo. Entrambi, prolifici scrittori, attendono una ricostruzione della propria vicenda intellettuale che dia conto della vasta rete di rapporti culturali sottesa alla loro massiccia produzione editoriale.

Primo obiettivo del nostro discorso è mostrare come l’opposizione di Cremonini alle idee galileiane rientri in un più vasto disegno di salvaguardia della lettera peripatetica di fronte alle teorie e pratiche innovative che nel primo Seicento si accreditano negli spazi dello Studio patavino, roccaforte dell’aristotelismo. Processo questo che si svolge al contempo tanto nel dominio della fisica quanto in quello della biologia, e tanto più destrutturante, perché inteso a ridisegnare la gerarchia dei saperi a detrimento della episteme classica.

Né Cremonini né Liceti sono riducibili al rango di uno sprovveduto Simplicio o a quello di strenui attardati difensori di dogmi irreparabilmente confutati. Per Cremonini basti ricordare il problematico – e tutto da ricostruire – influsso su un ambiente d’avanguardia della Venezia colta – e, perché no, un po’ maudit, come prova il caso di un altro avversario di Galileo, Antonio Rocco – quale è quello dell’Accademia degli Incogniti. Liceti è per parte sua al centro della rete di comunicazione colta della prima metà del Seicento –e a tal proposito vanno ricordati i sette volumi a stampa del suo assai più vasto epistolario, giacente in parte manoscritto in diversi fondi delle biblioteche italiane. Liceti corrisponde con Galileo, ma pure con Cassiano dal Pozzo, dialoga per lettera con gli anatomisti contemporanei sulle tesi del De motu cordis di Harvey. La sua autorità lo rende naturale – o fatale – interlocutore per quanti siano interessati alla penetrazione del nuovo sapere nelle aule accademiche. Liceti è nel novero degli assidui corrispondenti di Galileo non a caso; con lui lo scienziato toscano discute senza pregiudizi – ma non sempre dissimulando nelle lettere altrui dirette l’impazienza e a tratti l’irritazione -, e ciò obbedisce ad un generale e complesso criterio con cui Galileo organizza il proprio sistema di comunicazione con i contemporanei, ricostruibile dall’analisi del suo carteggio.

Il problema interpretativo che si pone insomma non è quello di indagare se vi sia o meno qualche dose di aristotelismo nell’opera galileiana - problema che si ritiene risolto entro il dibattito cui si è fatto cenno -, è piuttosto quello di far emergere le ragioni culturali, né contingenti né trascurabili, che determinano il duraturo dialogo di Galileo con alcuni dei più illustri esponenti dell’aristotelismo padovano.

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