Logica e filosofia, logica della filosofia. Le Considerazioni di Vincenzio di Grazia sul Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono di Galileo

Francesco Paolo de Ceglia

Universitá di Bari.

Italia

 

Vincenzio di Grazia, giovane fiorentino, l’indomani della pubblicazione del Discorso sui galleggianti, valutò opportuno dare alle stampe alcune sue Considerazioni. Egli – così dichiarava – non intendeva prendere le parti di Aristotele, "non facendo mestieri a sì grand’uomo di [...] difesa", bensì aveva come obiettivo "dichiarandolo di mostrare, lui da per sé stesso dalle calunie impostegli esser bastevole a difendersi" [IV, 377].

La quaestio de natantibus, nata nell’estate del 1611, aveva visto contrapporsi Galileo ad alcuni letterati sul problema della solidificazione dell’acqua in ghiaccio. Il Pisano era persuaso che quest’ultimo fosse acqua rarefatta, quindi meno grave in specie della stessa in forma liquida, dal momento che vi galleggia sempre. Di parere diverso si erano mostrati alcuni interlocutori, i quali avevano definito il ghiaccio acqua condensata, in quanto più duro e compatto del liquido da cui si forma; se esso non vi affonda è in virtù della figura ampia, la quale lo rende incapace di vincere la resistenza ad essere penetrato opposta dal mezzo. La querelle si protrasse per alcuni anni, non solo in ambiente toscano, coinvolgendo tutta una serie di personaggi che intesero far valere le proprie ragioni – o, meglio, spesso quelle, presunte, di Aristotele – contro il Filosofo del Granduca e Matematico dello Studio di Pisa.

Vincenzio di Grazia è una delle figure meno note tra quelle di coloro i quali parteciparono al dibattito sui galleggianti. Sarebbe pertanto opportuno studiarla valorizzandone criticamente apporti e limiti, con un occhio di riguardo non tanto ai suggerimenti tecnici – spesso di valore assai limitato – offerti per la risoluzione dei quesiti idraulici alla base del confronto, quanto in relazione alle considerazioni logiche, epistemologiche e metodologiche avanzate nelle Considerazioni in merito al Discorso galileiano e, in genere, all’indagine de rerum natura.

Le riflessioni di di Grazia sono dichiaratamente ispirate al dettato di Aristotele, citato spesso e con grande diligenza, come forse solo uno studente zelante sa fare. La lettura che se ne propone, sdegnosamente amatematica, sembrerebbe quasi condividere alcuni motivi (ovviamente non quelli antiaristotelici) della filosofia naturale del tardo Rinascimento, intesa soprattutto nelle sue coloriture pansensistiche.

Galileo – per di Grazia – ha voluto compiere un’invasione di campo, così generando un monstruum. L’autore del Discorso infatti, non chiarendo i principi metodologici in base ai quali si muove, con "ragioni matematiche" ha tentato di spiegare le "cose naturate", senza valutare opportunamente l’incongruenza epistemologica che, come un fossato, separa le prime dalle seconde. Chi si occupa di matematica tradizionalmente astrae da ogni movimento: offre un’immagine statica e istantanea della realtà, la quale, depauperata della temporalità, del moto e della "materia sensibile", si mostra come il fantasma di se stessa.

La natura di cui parla Galileo è per di Grazia fredda e disincarnata, sfrondata di una serie di impedimenti che non permettono di conoscerla appieno. L’autore del Discorso si riferisce a solidi che, affondando, sollevano moli d’acqua pari alla loro parte immersa, senza aggiungere un’osservazione che solo un filosofo, il quale sempre "considera la materia sensibile", potrebbe avanzare, che cioè questo avviene "se però l’acqua e quel mobile non si costiperanno insieme" [IV, 338]. Perde di vista una miriade di piccoli fenomeni non matematizzabili, i quali, al pari e forse più di quelli specificamente assunti ad oggetto della sua scienza, costituiscono il mondo nella sua complessità. Nei corpi naturali individua solidi perfetti, figure che neanche un geometra sarebbe in grado di disegnare, ma dimentica di valutare che nel reale non sono ravvisabili forme di così adamantina linearità. Compie pertanto un errore pernicioso, che comporta il pregiudizio delle sue speculazioni teoriche: infatti "chi non sa che ogni minima variazione muta le proposizioni geometrice?" [IV, 418-19].

Si apre uno iato così tra la scienza dei filosofi e la scienza di quei matematici che volevano dare consistenza filosofica ai loro discorsi. Alle ragioni del primo dei due gruppi si desidera prestare attenzione.

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